La scelta dei tessuti ecologici è importante per ridurre l'inquinamento provocato dall'industria della moda.
L’industria del tessile e dell’abbigliamento ha un ruolo cruciale a livello ambientale perché, oltre a essere uno dei principali consumatori di acqua a livello globale, incide per circa un decimo sul totale delle emissioni di gas serra presenti nell'atmosfera.
Una delle classificazioni più utilizzate suddivide i tessuti in naturali, ovvero derivati da fibre organiche o di origine animale, e “man made”, cioè prodotti artificialmente dall'industria chimica. Alla prima classe appartengono il cotone, il lino, la canapa tessile, la lana, la seta e il caucciù o gomma naturale, mentre nella seconda convergono tutti i tessuti sintetici come il nylon e il poliestere, ottenuti da materiali fossili, e il rayon e l’acetato, realizzati partendo dalla cellulosa degli alberi.
Per sopperire alla scarsa disponibilità di materie prime, infatti, si è spesso assistito ad allevamenti intensivi, torture sugli animali, deforestazione e modalità di coltivazione che prevedono l’utilizzo di sostanze inquinanti per l’aria, per l’acqua, per il suolo e per la fibra stessa su cui si depositano. Ecco perché sono nate alcune certificazioni come Gots per il cotone organico e NewMerino per la lana etica che garantiscono la sostenibilità etica e ambientale del tessuto controllando l’intero processo produttivo, dalla coltivazione della fibra alla lavorazione e nobilitazione del filato.
Non bisogna essere ambientalisti convinti o sostenitori del farro per credere di poter migliorare quanto sino ad ora distrutto.
«Basti pensare che per dare ai tessuti l’aspetto desiderato, vengono usate circa 8 mila sostanze chimiche, molte delle quali finiscono nei corsi d’acqua. E questo succede soprattutto nei Paesi in via di sviluppo come Cina, Bangladesh, Vietnam e Cambogia, dove mancano delle regole severe per il rispetto dell’ambiente. Eppure è lì che i brand della moda veloce producono, perché solo grazie al costo irrisorio della manodopera, e quindi allo sfruttamento dei lavoratori, possono farci pagare così poco il prodotto finale».